Perché ci sentiamo soli anche quando siamo circondati da milioni di persone

In città le insegne si accendono e si spengono senza sosta, i volti dei condomini cambiano spesso. Le piazze si svuotano e si riempiono al ritmo della movida e i locali cullano gli avventori, inseguendo di notte in notte i loro desideri. Dove tutto cambia, inseguendo una ciclicità solo apparente, anche la solitudine ha mutato forma: non è più il silenzio o la mancanza di persone, ma un sentimento nascosto dietro notifiche, rumori incessanti e sorrisi di cortesia.
Per Haruki Murakami, scrittore e traduttore giapponese, “la solitudine non è solo assenza di persone. È la mancanza di scopo, la mancanza di significato. È il percepire la propria esistenza in un mondo dove tutto sembra alienato e distante, dove ogni connessione appare superficiale e ogni sforzo di comprendere e conoscere in profondità viene accolto dall’Altro con indifferenza”.
Atomismo, il volto urbano della solitudineSono queste le parole che Graziana Orefice, psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale di Unobravo, ha scelto per descrivere il modo in cui, nelle città, sta mutando oggigiorno il concetto di solitudine. Un concetto che non riguarda più il sentirsi soli, ma il vivere un mondo che sta perdendo di significato a causa dell’individualismo. Secondo Orefice, le parole di Muramaki sono un invito a spostare lo sguardo oltre la semplice presenza degli altri. Per individuare cos’è la solitudine, specialmente in un contesto come quello delle città, occorre interrogare un vuoto più profondo: quello relativo alla disconnessione e all’assenza di significato.
“Oggi – spiega Orefice – la solitudine si manifesta in molte forme, e una delle più evidenti è quella che si respira nel cuore delle grandi città: è l’urban loneliness. Si può vivere circondati da milioni di persone e sentirsi comunque invisibili. La città, piena di rumori, messaggi, notifiche, ci illude di essere sempre connessi, ma spesso ci priva di calore autentico. Non è un caso che una persona su due abbia dichiarato a Unobravo di sentirsi sola nella città in cui vive”.

“Lo scenario della solitudine in città è reale, lo canta anche Lucio Corsi nella sua Frecciabianca: ‘Sentirsi soli in una grande città/Fa più male che dalle mie parti’, ed è una solitudine ambigua e silenziosa – afferma Orefice –. Basti pensare a un vagone della metropolitana nell’ora di punta, coi corpi vicini ma gli sguardi assenti, o a un palazzo con mille finestre accese. O, ancora, a un parco dove un gruppo di ragazzi condivide lo stesso spazio, ma ognuno è impegnato con il proprio telefono. Sono immagini reali, quotidiane, che raccontano una verità scomoda: anche nella folla ci si può sentire profondamente soli”.
Secondo la psicoterapeuta, sono fattori come il lavoro da remoto, i gruppi familiari mononucleari, i ritmi accelerati e la fragilità delle relazioni a contribuire a questa nuova forma di isolamento moderno. Un nuovo contesto che, dietro la libertà della connessione infinita, nasconde una forte perdita di appartenenza.
I dati delle città metropolitaneDando uno sguardo alle principali città d’Italia, i dati raccolti da Unobravo rivelano che, a Milano, il 43% dei residenti sperimenta solitudine. A Genova il dato sale al 44%, a Roma tocca il 53%. Un’indagine che rivela anche come il fenomeno sia tutt’altro che limitato alle grandi città: a Livorno, un cittadino 1 su 2 confessa questa percezione. La percentuale sale al 62% a Trieste e al 68% a Padova.

“Ma il dato forse più sorprendente – spiega Orefice – è quello generazionale: a sentirsi solo è il 70% dei giovani adulti (25-34 anni) e il 69% dei più giovani (18-24 anni). Nella sua trasversalità, questo dato ci restituisce una prospettiva diversa su questo fenomeno, spesso associato alle fasce di popolazione più anziane: la percentuale degli over 65, generalmente considerati i più isolati, è molto più bassa, il 33%”.
Un’iperconnessione paradossaleProprio come per i più giovani, definiti da Orefice “la generazione più connessa di sempre”, la differenza tra metropoli e borghi riflette lo stesso paradosso che contrappone i giovani agli anziani. L’iperconnessione dovuta ai social media e alla facilità di spostamento provata dagli under 35 (il 70% dei quali si dichiara solo) è la stessa che si può provare in città, dove tutto è a portata di mano e, apparentemente, disponibile.
“Come si spiega, dunque, tanta solitudine proprio tra chi dovrebbe avere più possibilità e una rete sociale più fitta? Forse con ciò che oggi viviamo ogni giorno: un’iperconnessione paradossale. Siamo costantemente raggiungibili, ma raramente raggiunti davvero. Le relazioni sembrano un pacco di biscotti al supermercato: scorriamo tra i volti come tra gli scaffali, scegliendo quelli dal packaging più accattivante, salvo poi restare immobili tra le corsie, in attesa di un’alternativa migliore. Non ‘investiamo’ in nessuno perché abbiamo la costante paura di perderci qualcuno di più conveniente subito dopo”, afferma Orefice.

“È allora che sorge inevitabilmente la domanda: da dove si può ricominciare? Come si ricostruiscono senso, connessione e radici autentiche? – si chiede Graziana Orefice –. James Hillman, psicoanalista e filosofo statunitense, nel suo ‘Codice dell’anima’, ci offre una chiave: ognuno porta dentro di sé una ‘ghianda’, una vocazione originaria. Quando ci allontaniamo da quella verità interiore, tutto tende a diventare più opaco. Ritrovare contatto con quel nucleo autentico, con ciò che ci alimenta profondamente, è anche il punto da cui possono nascere relazioni vere, durature e nutrienti”.
E, secondo Orefice, per riconoscere la propria “ghianda” è sufficiente praticare piccoli ma potenti esercizi per combattere l’iperconnessione. Un primo step è quello di coltivare le proprie relazioni con impegno e in modo autentico, sia tramite gesti semplici e abitudinari che con più dedizione. Un tentativo, dunque, può essere fatto da una passeggiata tra le attività di quartiere, ma anche da una telefonata a una persona con la quale i rapporti si sono allentati, magari proprio a causa dell’iperconnessione. Anche le attività di zona, come l’associazionismo, possono aiutare a “scegliere” anziché venire trasportato dal flusso.
“Occorre anche riformulare la propria solitudine – afferma Orefice -. Non ogni momento di solitudine è vuoto. In certi periodi, stare soli può essere un gesto di amore verso sé stessi. Se vissuta con consapevolezza, quella solitudine può diventare fertile e trasformativa: uno spazio sacro in cui ricentrarsi. Infine, Hillman ci ricorda che la vera connessione nasce dalla scoperta di chi siamo davvero. Non basta ‘fare qualcosa con gli altri’: serve essere qualcosa con un significato. Non basta stare insieme, serve sentirsi davvero connessi”.
Luce