Tour de France 2025 | Le buone ragioni di Jonas Abrahamsen


Jonas Abrahamsen, Mauro Schmid e un tizio che protestava per qualcosa sul rettifilo d'arrivo della undicesima tappa del Tour de France 2025 (foto Ap, via LaPresse)
Il racconto del Tour de France 2025
Jonas Abrahamsen ha vinto l'undicesima tappa della Grande Boucle davanti a Mauro Schmid e a Mathieu van der Poel. Tadej Pogacar è caduto, nessuno ha però voluto avvantaggiarsi
A Tolosa i Pirenei sono un’interferenza all’orizzonte, una promessa o una minaccia a frastagliare in lontananza nel cielo d’Occitania. Non era ancora tempo di salite, era ancora tempo di quel su e giù snervante che gli ottimisti chiamano pianura, intervallato da qualche côte buona per stuzzicare gli avventurieri della bicicletta. Uomini che considerano il Tour de France una somma di giorni e non una somma di tempi; uomini capaci di pedalare immaginando solo l’immediato futuro, rivoltosi incapaci di accettare il volere del gruppo.
C’erano decine e decine di buone ragioni che si osservavano nelle prime posizioni del gruppo ancor prima della partenza. Ognuna di queste validissima, ognuna di queste esclusiva, soprattutto escludente le altre.
Hanno provato a imporre la loro in tanti. Ci sono riusciti Jonas Abrahamsen, Davide Ballerini e Mauro Schmid. Si sono aggiunte quelle di Mathieu Burgaudeau e Fred Wright. Hanno trovato un accordo di tregua buono per avvicinarsi all’arrivo. Un accordo che sapevano tutti si sarebbe frantumato una volta che il traguardo di Tolosa fosse a portata di pedale.
Un accordo che non è vacillato nemmeno nel momento in cui, in lungo saliscendi a una sessantina di chilometri e non valevole nemmeno per qualche punticino per la classifica scalatori, Jonas Vingegaard ha provato a sorprendere Tadej Pogacar e tutti quegli altri che pensano al Tour come una sommatoria di tempi lunga tre settimane. Non ce l’ha fatta. Ha scartato subito l’ipotesi di poter recuperare il tempo sin qui perduto dal campione del mondo (tutto a cronometro) quando lo sloveno è finito steso sull’asfalto per qualche secondo di distrazione. Il danese questo Tour de France lo vuole vincere staccando Tadej Pogacar, non è interessato a nient’altro. Ha detto ai gregari di aspettare chi era caduto. Al suo volere non si è opposto nessuno. E sì che non ci sarebbe stato niente di male, le cadute fanno parte del ciclismo. Jonas Vingegaard però è galantuomo (lo ha dimostrato più volte, la più evidente lungo la discesa del Col de Spandelles alla Grande Boucle di tre anni), è convinto che il tempo lo sia altrettanto. È quasi mai vero, ma tant’è.

E ancor meno quando alle loro spalle si è materializzato un gruppetto di gente tostissima, gente che per talento e curriculum farebbe impallidire i più: Arnaud de Lie, Axel Laurence, Quinn Simmons, Wout van Aert e Mathieu van der Poel.
L’accordo s’è sciolto lì dove doveva sciogliersi, sulla Côte de Pech David, ottocento metri di insensata pendenza vista Garonna. Mauro Schmid e Jonas Abrahamsen hanno accelerato, sono rimasti soli, hanno provato a diventare imprendibili.
Dietro Davide Ballerini, Mathieu Burgaudeau e Fred Wright non hanno potuto fare altri che vederli rimpicciolirsi davanti a loro.
Ancor più dietro Mathieu van der Poel provava invece ad imitarli non sapendo di imitarli. Le interferenze alla radiolina non gli avevano fatto capire che davanti ai tre che aveva ripreso ce ne era altri due. Se ne è accorto solo quando li ha intravisti a poche centinaia di metri da lui, ormai irraggiungibili. Li ha visti rallentare, osservare lo spazio alle loro spalle. Ha visto Mauro Schimid provare la volata, Jonas Abrahamsen raggiungerlo, superarlo, esultare per la vittoria di tappa.
E poi stupirsi. Perché non doveva esserci neppure al via di questo Tour de France. Si era rotto la clavicola il 18 giugno, si era operato, era risalito immediatamente sui rulli, undici giorni dopo era già in gruppo al campionato nazionale norvegese. Se si riescono a fare certe cose, certi recuperi, vuol dire che si ha motivazioni migliori di quelle di chiunque. Vuol dire che non si ha paura di niente. Non di uno sprint a due, figurarsi di un campione del mondo alle calcagna.
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