Che cosa c’è dietro le scelte opposte di Inter e Milan


il foglio sportivo
Con Chivu e Allegri scelti due profili differenti, ma con un denominatore comune: la voglia di riscatto
L’ultima volta di Massimiliano Allegri da allenatore del Milan era una notte di metà gennaio del 2014. Domenico Berardi doveva ancora compiere vent’anni, Mario Balotelli era reduce dalla migliore mezza stagione della sua vita, da lì a una settimana il leader di Forza Italia nonché patron del Diavolo Silvio Berlusconi si sarebbe presentato da Matteo Renzi per siglare il Patto del Nazareno. Sassuolo-Milan, in mezzo alla nebbia, era finita 4-3, con un poker dell’enfant prodige neroverde e Allegri gentilmente allontanato, con tutti gli onori del caso. Certo, Berardi è ancora al Sassuolo, ma per il resto lo scenario è drasticamente cambiato. Eppure, dal momento del suo ritorno, il Conte Max sembra perfettamente calato nei panni del nuovo-vecchio condottiero rossonero. Ha spento esternamente gli entusiasmi, ha cercato di riportare ordine e di lavorare in sintonia con la società, ha fatto buon viso a cattivo gioco davanti a partenze pesanti. Difficile dire chi dei due avesse più bisogno dell’altro: se Allegri, reduce da un’ultima istantanea da allenatore di puro juventinismo sbandierato ai quattro venti sul prato dell’Olimpico di Roma, o se il Milan, uscito da una stagione di alti (pochi) e bassi (molti) con le ossa rotte e la reputazione di due allenatori messa a dura prova.
L’ultima volta di Cristian Chivu da giocatore dell’Inter in Serie A era una sera di inizio maggio al San Paolo di Napoli, non ancora Maradona. A far urlare tre volte il pubblico di Fuorigrotta ci aveva pensato Edinson Cavani, rebus irrisolvibile per i nerazzurri di Stramaccioni. Chivu era sceso in campo con la fascia da capitano, ma a rileggere quella formazione a distanza di anni viene da sollevare il sopracciglio in maniera ancelottiana: la strana coppia Alvarez-Guarin in attacco visti gli infortuni dell’intero reparto offensivo, la mediana a tre composta da Benassi, Kovacic e Kuzmanovic, Jonathan e Alvaro Pereira a tutta fascia. A differenza di Allegri, Chivu non se ne è mai davvero andato: ha imparato il mestiere, si è messo al lavoro nelle giovanili dell’Inter, è salito fino alla Primavera, ha vinto uno scudetto e poi, nello scorso febbraio, si è rimboccato le maniche per salvare il Parma da una brutta china, provando anche ad aiutare il suo vecchio club con un pareggio contro il Napoli che profumava di scudetto, prima che a San Siro si materializzasse un incubo di nome Pedro.
L’estate di Milan e Inter sta scorrendo con premesse molto lontane, quasi a segnare ulteriormente la spaccatura cittadina. Il comune denominatore è quello del riscatto, perché nonostante il gap in termini di punti, i nerazzurri sono usciti dal finale di stagione con più cicatrici di quanto fosse lecito immaginare soltanto a una ventina di giorni dall’epilogo di Monaco di Baviera. Chivu ha già avuto modo di conoscere il gruppo durante quello strano esperimento chiamato Mondiale per club, ma sulla reale entità di quel torneo per i nerazzurri non c’è da scommettere più di tanto: forse anche per questo nella prima conferenza stampa dal rientro al lavoro non è uscito dai binari del “calcese” tradizionale. Rimanere ai vertici, l’intento di non copiare nessuno, il lavoro come unica via da seguire, nessuna voglia di sbilanciarsi sul ruolo di possibile favorita. In questa fase, pare molto attento a non sporcare il foglio, anche se la sua Inter dovrà giocoforza essere leggermente diversa da quella di Simone Inzaghi.
Dall’altra parte, Allegri ha la sfacciataggine di chi naviga questi mari da decenni ed è rotto a qualsiasi esperienza. Anche lui ha chiesto di allontanare dal Milan l’etichetta, se non di favorita, quantomeno di outsider per il tricolore: a differenza di Antonio Conte, che ha mirabilmente sfruttato l’annata senza coppe per dare l’assalto al campionato, il tecnico toscano ci è già cascato, sa cosa si prova a non avere le competizione europee tra i piedi senza però avere la forza, organico alla mano, per andarsi a prendere il triangolino di stoffa tricolore. “Noi dobbiamo giocare la Champions per confrontarci con i grandi avversari”, ha detto alla vigilia del test con il Perth Glory. Fa il pompiere e getta il peso del pronostico sugli altri, e anche questo è “calcese” purissimo, così come ricalca il perfetto stile Allegri il ricordare che i calcoli sulla classifica si fanno da marzo in poi, non prima. Eppure si respira un’aria frizzantina, saranno le amichevoli, sarà la presenza di una leggenda come Luka Modric in un gruppo che per il resto è ancora tutto da completare e ricalibrare, sarà il pensiero che sarà difficile fare peggio dello scorso anno.
C’è il vecchio e il nuovo nell’estate della Milano calcistica, anche se forse è solo percezione: si fa fatica a resistere al fascino dell’usato sicuro, se ne fa altrettanta ad abbracciare fino in fondo la novità, perché una salvezza centrata con il Parma nel terzo conclusivo della stagione non accende l’entusiasmo dei tifosi. Magari ci penserà il mercato, con il braccio di ferro con l’Atalanta per Lookman che sembra la miccia giusta, ma è anche vero che un anno fa, di questi tempi, dalle parti di Torino ci si infiammava per la telenovela Koopmeiners, e la prima stagione non è finita benissimo. Magari ci riuscirà Chivu stesso, che a Parma ha messo in mostra idee non banali e merita fiducia. Sta per finire anche il tempo dei ricordi, delle ultime volte da rinverdire: Allegri, per esempio, a breve riscoprirà cosa vuol dire giocare un turno di Coppa Italia in pieno agosto. L’ultima volta era stato il 16 agosto del 2009, Triestina-Cagliari 1-0, gol di Jaroslav Sedivec, in una giornata rimasta nella storia dello sport per il 9.58 di Usain Bolt ai Mondiali di atletica di Berlino. Con buona pace di Sedivec.
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