Questa è la piccola Italia che vuole Meloni: reazionaria, autoritaria e bigotta

Il meeting di Rimini
Ultradizionalista, bigotta, senza confl itti sul lavoro, reazionaria. L’Italia che sogna Meloni è un Paesello chiuso ed asfittico fuori dal tempo

A Rimini, al meeting di Comunione e Liberazione, Giorgia Meloni non aveva mai partecipato e tuttavia ieri giocava in casa e ne era consapevole. Certo ha bandito la platea, con i riconoscimenti e gli attestati di merito a pioggia, con le citazioni a partire dal poeta cattolico T.S. Eliot, soprattutto con il linguaggio ispirato, comunitario. Ma non ce n’era bisogno.
La platea era pronta a scattare comunque nell’applauso scrosciante a ogni passaggio di rilievo del discorso e non si è fatta pregare. Ai ciellini, e certo non solo a loro, Giorgia Meloni ha saputo offrire quel che volevano, il quadro complessivo di una compiuta svolta reazionaria, e quel di cui avevano bisogno, la capacità di rivestire il progetto in vesti allettanti: quelle di un conservatorismo reazionario che sa presentarsi come innovativo e dinamico. Come rimedio a un presente che, anche in omaggio agli ospiti, descrive come “un mondo vinto dal nulla”, un “deserto fisico ed esistenziale”, la premier suggerisce “un modo nuovo di vivere identità antiche”. Un passo indietro in grado di far sognare il futuro: la dote di tutti i grandi leader reazionari e l’ambizione dichiarata di Giorgia Meloni è entrare di diritto in quel pantheon.
Inutile cercare novità nella lunga prolusione di Rimini: l’unica è l’annuncio di “un grande piano casa a prezzi calmierati per le giovani coppie” non solo come aiuto alle famiglie ma come leva per incentivare la natalità, perché se non si inverte la curva demografica “presto non ci sarà più alcuna civiltà europea da difendere”. La novità è nella sistematicità e nella esaustività con cui Meloni illustra il suo disegno, ovviamente con tutte le rivendicazioni d’ordinanza dei successi ottenuti, con le spillate per una volta nemmeno troppo acuminate contro l’opposizione, con l’elenco non certo inedito di quanto già fatto e quanto ancora da fare. Ma l’enfasi non è su questa o quella eccellenza, e si sa che per lei nell’operato del suo governo ci sono solo eccellenze. Non è neppure nella sfida quasi minacciosa che pur lancia soprattutto sul fronte che più le brucia, quello dell’immigrazione: “Ogni tentativo che verrà fatto impedirci di affrontare il problema dell’immigrazione verrà rispedito al mittente: non c’è giudice, politico o burocrate che possa impedirci di far rispettare la legge”. L’accento cade invece sull’omogeneità di un quadro metodicamente perseguito in cui tutto si tiene e tutto è omogeneo.
Quel quadro c’è davvero, non una vanteria millantata alla Salvini. È il sogno, o l’incubo, di un’Italia compiutamente reazionaria da ogni punto di vista, costruito sulla famiglia tradizionale e su una controrivoluzione culturale apertamente invocata perché sin qui hanno prevalso quelli che consideravano “la genitorialità un concetto arcaico e patriarcale”. Edificato sulla legge e sull’ordine con la riconquista in divisa di tutte quelle aree in cui uno Stato imbelle “aveva deciso di arretrare”. Fondato sulla negazione di ogni conflitto sul lavoro perché “non ho mai conosciuto un datore di lavoro che non considerasse i suoi dipendenti la risorsa più preziosa”. Meloni ha l’abilità di negare in partenza quel che ribadisce nel lungo prosieguo: la componente ideologica della sua politica: “Abbiamo scelto il campo non delle ideologie e delle utopie ma del reale: mille miliardi di idee non valgono una persona”.
Una visione ideologica compiutamente di destra si traveste così da un pragmatismo dettato solo dalla necessità a cui la premier ricorre davvero solo in materia di politica estera. Europeista e draghiana ma con l’obiettivo di un’Europa molto diversa dal suo progetto originario: una somma di identità nazionali convergenti solo sugli interessi comuni tenute insieme dalle “radici culturali e religiose colpevolmente negate”. Decisa a difendere il ruolo di spalla trumpiana in Europa, al punto da esaltare gli invisibili “spiragli di dialogo con Mosca” e da usare sì, per la prima volta, parole durissime contro il governo Netanyahu ma guardandosi bene dall’alludere anche alla lontana a qualsivoglia pressione concreta su Israele.
Nel pomeriggio a Rimini è arrivato anche Salvini. È stato attento a calmierare i toni, dopo l’incidente diplomatico con Macron ma è comunque stato molto meno diplomatico della premier: Draghi ha ragione nella pars destruens del suo discorso sull’Europa pronunciato in apertura del meeting, ma ha torto sulla ricetta. Di Europa ce ne vuole molta meno e non di più. Pur evitando l’insulto, ha ripetuto a Macron che non un soldato italiano rischierà la pelle in Ucraina. Lui e la premier sono apparsi come al solito diversi, e non a caso Giorgia ha fatto in modo di evitare non solo una foto appaiati ma anche solo di incrociarlo. Diversi lo sono davvero: nei metodi, nella strategia, nei toni e soprattutto nella caratura del talento politico. Ma sul traguardo, la chimera di un’Italia reazionaria, il ruspante Matteo e la sottile Giorgia la pensano esattamente allo stesso modo.
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