Nordio e la riforma dimenticata sul sequestro degli smartphone


foto Ansa
il caso
Nelle ultime settimane sui quotidiani sono state riversate decine di chat, spesso penalmente irrilevanti, di soggetti indagati (e non) coinvolti nell'inchiesta milanese sull'urbanistica. Colpa di un enorme vuoto normativo che consegna ai pm poteri immensi. E la riforma annunciata dal ministro è bloccata
Sullo stesso argomento:
Decine di chat scambiate tra i soggetti indagati (e non) nella maxi inchiesta milanese sull’urbanistica sono state pubblicate nelle ultime settimane sui principali quotidiani italiani. Conversazioni in molti casi dal contenuto penalmente irrilevante. Non si tratta di un caso isolato. Anche l’indagine su alcuni presunti appalti illeciti a carico di Matteo Ricci, candidato del centrosinistra alla presidenza delle Marche, è incentrata su alcune conversazioni scambiate tra l’ex sindaco di Pesaro e un suo collaboratore. Ruota attorno a chat ritenute “scottanti” anche l’indagine che ha portato alle dimissioni del governatore della Calabria, Roberto Occhiuto. Insomma, da nord a sud del paese, i pubblici ministeri sono scatenati nel condurre inchieste fondate sul sequestro di smartphone e dispositivi elettronici, con estrazione delle conversazioni in questi contenute (ad esempio quelle avvenute su WhatsApp). La ragione è presto detta: in Italia i pm possono sequestrare i telefonini ed estrarre copia di tutti i dati contenuti senza alcuna autorizzazione del giudice delle indagini preliminari, come invece avviene normalmente con la realizzazione delle intercettazioni e anche l’acquisizione dei tabulati telefonici. Siamo di fronte a un buco nero nella normativa che risulta in contrasto con la direttiva europea n. 680 del 2016 e diverse sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, che impongono un controllo preventivo da parte di un’autorità terza prima di consentire l’accesso a dati personali contenuti nei dispositivi elettronici.
Un problema ben noto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che nel febbraio 2024 annunciò una riforma della disciplina del sequestro degli smartphone, spiegando che “oggi nel cellulare non ci sono solo le conversazioni, c’è una vita intera”, e questa vita “non può essere messa nelle mani di un pubblico ministero che con una firma se ne impossessa e magari dopo non vigila abbastanza sulla sua divulgazione”. “In un telefonino o in uno smartphone sono contenute cartelle cliniche, dichiarazioni dei redditi, conversazioni intime, immagini, non soltanto del sequestrato, ma dei suoi amici e degli amici degli amici”, sottolineò Nordio, aggiungendo: “La tecnologia oggi consente questa concentrazione di notizie che poi vengono assorbite nel telefonino e che possono essere sequestrate con la sola firma di un pubblico ministero. Cosa inaudita che confligge contro qualsiasi regola umana e divina, contro l’articolo 15 della Costituzione che tutela la riservatezza delle conversazioni”.
Il tema è diventato ancora più attuale dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 170/2023, che ha equiparato i messaggi elettronici, “e-mail, sms, WhatsApp e simili”, a corrispondenza tutelata dall’articolo 15 della Costituzione.
Sulla base di tutto ciò, nell’aprile 2024 il Senato ha approvato un disegno di legge con primi firmatari Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Giulia Bongiorno (Lega), con l’astensione del Pd e il voto contrario del M5s. Il ddl prevede che il pm non possa più disporre in autonomia il sequestro di uno smartphone o di un dispositivo informatico, ma dovrà chiedere l’autorizzazione del gip (salvo i casi urgenti). Entro cinque giorni, poi, si svolgerà una procedura per duplicare i dati (che non hanno carattere di comunicazioni telematiche o informatiche) contenuti nello smartphone o nel dispositivo. Infine il pm potrà chiedere al gip il sequestro dei dati ritenuti penalmente rilevanti. L’intero duplicato informatico dovrà essere conservato con modalità tali da assicurarne l’assoluta riservatezza.
La procedura, seppur farraginosa e con alcuni aspetti migliorabili, avrebbe certamente evitato l’incredibile fuoriuscita delle chat relative all’inchiesta sull’urbanistica dalla procura di Milano, con conseguente pubblicazione sui giornali. Da un anno e mezzo, però, dopo essere stato approvato al Senato, il testo è fermo alla commissione Giustizia della Camera.
“Sono piuttosto sconfortato”, ammette al Foglio Zanettin. “Dopo essere stata portata in palmo di mano da Nordio, la proposta ora langue da un anno e mezzo alla Camera. Nessuno riesce a capirne il motivo, eppure assistiamo sempre di più a tempeste mediatiche basate sulla pubblicazione di chat estrapolate durante le indagini, piene di battute il cui valore indiziario e probatorio mi appare assai labile”. Anche il deputato forzista Enrico Costa si definisce “perplesso” di fronte allo stallo parlamentare.
Di certo non hanno aiutato le bordate lanciate lo scorso maggio in audizione alla Camera dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, secondo cui la riforma “avrebbe un impatto disastroso sulle indagini di mafia”. Il contrasto alla mafia rappresenta da sempre un totem intoccabile per Fratelli d’Italia e nei corridoi parlamentari in molti sospettano che sia stato proprio il partito di Meloni a imporre uno stop alla trattazione del ddl Zanettin. Intanto, però, i giornali continuano a riempirsi di chat penalmente irrilevanti, con relativo sputtanamento delle persone coinvolte, a volte neanche indagate.
Di più su questi argomenti:
ilmanifesto