Residenza di sangue, residenza di polemica: l’isola nel suo giorno più buio

Editoriale di Gaetano Di Meglio | La strage del Cuotto non è solo la cronaca nera di un Ferragosto insanguinato. È il riflesso di un Paese che ancora non riesce a proteggere le donne da una violenza che, troppo spesso, si annida nelle mura domestiche e si trasforma in tragedia.
Quella di Antonio Luongo non è stata la follia improvvisa di un uomo qualunque, ma la lenta maturazione di un rancore, di un’ossessione, di un’idea malata di possesso. La sua ex moglie, Lyudmyla Velykgolova, aveva ricostruito una vita, come milioni di donne che dopo un matrimonio finito provano a rialzarsi. Ma il filo che la legava al passato si è trasformato in cappio: in quell’uomo che conosceva i suoi orari, i suoi spostamenti, i suoi affetti più cari.La dinamica del delitto – il cambio di auto, la trappola tesa, l’attesa, i colpi esplosi uno dopo l’altro, la rincorsa tra i vicoli – racconta più di mille analisi sociologiche: il femminicidio non è mai solo l’uccisione di una donna, ma l’annientamento di un’intera sfera di relazioni. Qui sono stati colpiti un compagno, una madre, una comunità intera. Una catena di vite spezzate dalla convinzione che l’altro sia proprietà, che l’amore non finisca ma possa trasformarsi in arma.
E il femminicidio del Cuotto non è lontano dai tanti episodi di violenza di genere che, purtroppo, abbiamo raccontato anche sull’isola. Non è un fenomeno diverso: è soltanto l’atto più estremo di quella stessa famiglia di reati che parte da umiliazioni e minacce e arriva fino alla soppressione della vita.
A Forio, pochi giorni fa, abbiamo scritto di quella donna costretta a subire le violenze del compagno persino a Natale, e obbligata a indossare soltanto “mutande bianche alte”. Abbiamo raccontato del padre-aguzzino che per anni ha imprigionato moglie e figlioletta in una casa trasformata in una casa di paura e terrore. E ancora, della ragazza che ha dovuto denunciare l’ex fidanzato che la minacciava di “metterla in una busta nera e di non farla trovare da nessuno”. Tutti episodi che testimoniano come Ischia faccia bene a indignarsi quando il sangue arriva dalla terraferma, ma che ricordano anche una realtà scomoda: la violenza di genere è parte integrante della nostra società, non un corpo estraneo.

Quello del Cuotto è un femminicidio perché al centro della follia di Antonio Luongo c’era Lyudmyla. Ma a differenza di altri casi, a pagare non è stata solo la donna: sono caduti anche il suo compagno, Nunzio Russo Spena, e un’innocente, la madre Zinoviya Knihnitska. Un’estensione della tragedia che ha moltiplicato le vittime e reso l’orrore ancora più devastante.L’isola, tuttavia, in queste ore ha mostrato anche il suo peggior volto. Sui social si è visto emergere un misto di razzismo e voyeurismo, come se il sangue sull’asfalto potesse pesare di più o di meno a seconda del rigo di residenza riportato sulla carta d’identità delle vittime.
E il punto più basso è stato toccato quando qualcuno ha tentato di legare la furia omicida di un uomo di 71 anni alla credibilità di Ischia come destinazione turistica, come se ogni tragedia – che sia un terremoto, una frana o un delitto familiare – dovesse essere misurata soltanto in base al suo impatto sul mantra del “facciamo turismo”. Una lettura vile e miope, che riduce il dolore umano a variabile economica, spogliando la tragedia del suo significato più profondo.Ischia, in questi giorni, è la fotografia dell’Italia intera: un’isola che fino a Ferragosto discuteva di spettacoli trash e polemiche leggere, improvvisamente piombata nel dolore più cupo. Una comunità che si stringe, che si interroga, che cerca risposte che forse non arriveranno mai.
Eppure, se un senso c’è nel raccontare ancora e ancora queste storie, è proprio quello di non assuefarsi. Di non accettare che “è successo di nuovo” diventi una rassegnata formula da ripetere al prossimo delitto. Di pretendere leggi, protezioni, ascolto, prevenzione. Di insegnare che nessun legame giustifica la violenza, che nessuna relazione spezzata può diventare un tribunale privato con la pistola come sentenza.
E tuttavia, dobbiamo anche accettare il lato più cupo di questa vicenda. Per quanto si possa lavorare su cultura, prevenzione e repressione, non arriveremo mai al “delitto zero”. Non potremo mai impedire del tutto al prossimo Antonio Luongo di procurarsi una pistola illegalmente e di mettere in pratica la propria follia omicida. Non è una giustificazione, ma il lato B, incomprensibile e vero, di questa assurda vicenda.
La strage del Cuotto ci lascia tre morti, una donna in bilico tra la vita e la morte, un’intera comunità segnata. Ma ci lascia anche l’obbligo di guardare in faccia a una verità scomoda: finché non sapremo prevenire, ascoltare, proteggere, la cronaca continuerà a raccontare tragedie che non dovrebbero mai accadere.
Il Dispari