Da colonia penale e fattoria modello a terroristi e mafiosi: il paradiso nascosto di Pianosa


C’è una perla nascosta in mezzo al Tirreno. È rimasta miracolosamente al riparo dai flussi turistici di massa, protetta dalla sua storia e dalla geografia. È talmente bassa sul livello del mare che a poche miglia di distanza non si riesce neanche a vederla. Fin dai tempi dei romani è stata luogo di esilio, di isolamento, sofferenza e reclusione. Ma è stata anche un granaio fiorente, centro di produzione agricola che regalava ogni ben di Dio, esportava vino, olio, pollame.
C’è un minuscolo borgo ottocentesco, grazioso, un tempo animato e vivace e oggi in stato di totale abbandono. Nella memoria di chi ha conosciuto quel piccolo mondo antico ha lasciato un ricordo indelebile, come una sorta di paradiso perduto.
È Pianosa, un triangolino di terra affiorante dal mare, a una dozzina di chilometri dalla costa sud-occidentale dell’isola d’Elba. I geologi ci dicono che negli ultimi 500mila anni il livello del mare è salito e sceso più volte al ritmo del respiro della Terra. Pianosa e l’Elba sono state a fasi alterne isole, come ai giorni nostri, oppure parte di un’unica grande penisola che dalla costa di quella che oggi è la Toscana si insinuava nel Tirreno, protendendosi verso la Corsica.
I dieci chilometri quadrati di questa piattaforma non sono altro che fondali marini compressi ed emersi. La roccia, morbida e porosa, è formata da strati fossili di conchiglie, coralli e altri detriti del mare. È a questa conformazione che si devono i colori caraibici dei fondali, turchese e verde smeraldo.
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Abitata fin dai tempi del neolitico, Pianosa (per i romani Planasia) fu scelta da Augusto come luogo per allontanare da Roma Marco Agrippa Postumo, uno dei suoi nipoti nonché figlio adottivo, che – nelle trame di potere di Livia, seconda moglie dell’imperatore - avrebbe potuto insidiare l’ascesa al trono imperiale di Tiberio, figlio di primo letto della stessa Livia. Per Agrippa Postumo fu creata una prigione dorata: una splendida villa sul mare, con tanto di terme e di teatro, le cui rovine sono ancora oggi visibili. Poi, nel 14 d.C., Tiberio, ormai imperatore, inviò un sicario che uccise Agrippa.
Due porti, a Nord e a Est, assicuravano l’attracco delle navi romane in tutte le condizioni di mare. L’isola era coltivata. L’acqua era assicurata da un sistema di pozzi. Poi, dopo il tracollo dell’Impero Romano d’Occidente, il lungo declino.
Con il rilievo più alto di appena 29 metri l’isola era indifendibile, facile preda di incursioni. Per secoli i pirati saraceni hanno fatto il bello e il cattivo tempo, contrastati solo in parte dalla potenza marittima della Repubblica di Pisa.
In epoca più recente il Granducato di Toscana ha tentato invano di ripopolare l’isola. Fu così che nel 1858, appena tre anni prima della nascita del Regno d’Italia, il Granduca Leopoldo II diede avvio alla grande Colonia penale agricola, un esperimento molto innovativo per l’epoca, che di fatto anticipava la pratica odierna delle pene alternative. Grazie all’opera di dirigenti illuminati, il direttore della Colonia e l’agronomo, Pianosa divenne rapidamente una grande fattoria-modello, suddivisa in poderi dedicati alle varie coltivazioni: grano, olivi, vite, frutta, ortaggi, ma anche allevamento di bovini, ovini e polli (un impianto di avicoltura da cinque ettari, il pollaio all’epoca più grande d’Europa).
Le condizioni di vita dei detenuti erano durissime, ma sempre meglio della cella di un carcere dell’epoca. Il vino di Pianosa arrivava fino in Inghilterra. La Colonia penale partecipava con successo alle manifestazioni nazionali di agricoltura, facendo incetta di premi per qualità e innovazione tecnologica, tra cui – nel ventennio fascista - i riconoscimenti mussoliniani al tempo della battaglia del grano.
Nelle guerre mondiali del secolo scorso Pianosa è rimasta ai margini della storia. Il cibo non è mai mancato. Isolati su un lembo di terra al di fuori dal resto del mondo, persino i soldati tedeschi, durante l’occupazione militare seguita all’armistizio del 1943, hanno mostrato un volto umano, arrivando talvolta a familiarizzare con i locali. Le cronache, però, raccontano anche di un eccidio costato la vita a una quindicina di detenuti.
Poi nel secondo Dopoguerra il boom economico e gli “anni di piombo”. Per iniziativa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa la Colonia penale fu ampliata. Negli anni Settanta furono costruiti due nuovi padiglioni di massima sicurezza. Da qui sono passati vari esponenti delle brigate rosse e banditi come Renato Vallanzasca.
L’isola è arrivata ad ospitare circa duemila persone tra popolazione carceraria, guardie penitenziarie, le loro famiglie, le forze dell’ordine, i militari, il personale amministrativo. L’ultimo capitolo della Colonia penale è quello del 41bis, il regime di carcere duro. Tra il 1992 e il 1997 Pianosa ha ospitato i detenuti per reati di mafia.
Infine nel 1998 la chiusura del carcere, che ha segnato anche la fine di tutte le attività legate all’indotto. La vita si è ritirata da Pianosa. Non ci sono più famiglie. Niente più bambini. Non ci sono più la scuola né l’ufficio postale. Il piccolo borgo si è svuotato.
Gli edifici, costruiti a metà Ottocento in un aggraziato stile eclettico, che richiama le architetture del passato, sono pericolanti e transennati. Nelle poche strade non c’è illuminazione pubblica. Le uniche luci sono quelle della luna e di un cielo stellato mozzafiato. D’estate nelle acque cristalline del piccolo porto vecchio si aggirano soltanto i barracuda.
Di quasi due secoli di esperienza penale oggi resta ben poco. I poderi, un tempo giardini fertili e coltivatissimi, sono stati riconquistati dalla vegetazione spontanea. Una ventina di detenuti provenienti dal carcere di Porto Azzurro (isola d’Elba) può beneficiare, per motivi di buona condotta, di un regime di semi-libertà. Abitano in uno degli edifici della vecchia Colonia. Si muovono a piedi o in bicicletta.
La loro manodopera contribuisce a mandare avanti l’unico albergo presente sull’isola (Hotel Milena, in tutto una decina di stanze), ricavato dalla casa ottocentesca del direttore della Colonia. I detenuti mandano avanti anche l’unico ristorante di Pianosa nella ex mensa delle guardie penitenziarie.
Sull’isola oggi non ci sono negozi. Non c’è un bar. Non c’è un bancomat. Non c’è la farmacia. Da metà degli anni Novanta del secolo scorso Pianosa fa parte del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. È un luogo al tempo stesso vicino e remoto.
L’isola è uno scrigno di immenso valore dal punto vista paesaggistico, naturalistico e ambientale. È a un tiro di schioppo dal monte Capanne sull’Elba (1000 metri di altezza). Lo sguardo spazia tra la Corsica e Montecristo. È un paradiso ornitologico. È un enorme parco giochi per i biologi marini. Fa parte del Santuario dei cetacei dell’Alto Tirreno. È facile vedere le testuggini di mare che vengono a nidificare e a depositare le uova. È uno scrigno prezioso anche dal punto di vista geologico, archeologico, paleocristiano (c’è un sito di catacombe). Dal punto di vista sociologico ospita ancora oggi un esempio interessante di reinserimento dei detenuti nella vita civile.
L’isola ha indubbiamente una storia pesante di sofferenza, che però si attenua e tende a svanire nel sorriso con cui i detenuti, consapevoli del privilegio conquistato della semi-libertà, accolgono i pochissimi turisti in arrivo.
Il Parco disciplina in modo rigoroso la fruizione di questo straordinario patrimonio. Gli accessi sono contingentati. Partenze da Piombino e da Marina di Campo (Elba). Non è consentito attraccare con la propria barca né avvicinarsi all’isola nel raggio di un miglio dalla costa. Il bagno in mare si può fare in un unico punto, Cala Giovanna, a ridosso del muro di cinta in cemento armato costruito per il carcere di massima sicurezza e già in stato avanzato di degrado con i ferri arrugginiti affioranti a vista. È raro trovare nel Mediterraneo di oggi una spiaggia così, con quei colori da acquerello e l’acqua così cristallina.
La possibilità di movimento sull’isola è limitata. Il turista non può andare in giro a proprio piacimento. Fatta salva l’area tra l’albergo e il ristorante, deve sempre essere accompagnato da una delle guardie del Parco. In definitiva Pianosa ospita ancora dei detenuti.
Il Parco organizza escursioni guidate a piedi, in mountain bike, in kayak, visite ai siti archeologici e al carcere, snorkeling nelle calette. E vale la pena di farle tutte, perché il posto è davvero straordinario.
Ma di certo non è un posto per tutti. È adatto a chi vuole staccare la spina, a chi cerca quiete, silenzio e buone letture. I telefoni cellulari prendono. Ma dopo un paio di giorni a Pianosa la vita quotidiana da cui provenite potrà apparirvi lontana anni luce.
Naturalmente viene da chiedersi se non sia possibile ripensare Pianosa in una prospettiva diversa. La vista del borgo abbandonato con le case pericolanti fa stringere il cuore. Rattrista e al tempo stesso indigna. Come è possibile lasciar andare in malora un patrimonio di questo tipo? Di certo non aiuta la sovrapposizione delle competenze amministrative di enti diversi, tra cui Agenzia del Demanio, Parco nazionale, ministero della Giustizia, Comune di Campo nell’Elba, Soprintendenza ai beni archeologici, Vaticano (per le catacombe) ecc.
“Laddove sia stato possibile intervenire, d’intesa con il Demanio, siamo intervenuti”, osserva Maurizio Berlando, direttore del Parco. “Abbiamo recuperato – aggiunge - diverse strutture”, tra cui la bellissima Casa dell’Agronomo. Qualcosa nel frattempo si muove e sembra andare nella direzione giusta.
Un segnale positivo è il recente protocollo d’intesa sottoscritto da tutti i soggetti istituzionali a vario titolo coinvolti con l’obiettivo comune di preservare e valorizzare l’isola a cominciare dal recupero del borgo. La collaborazione dovrebbe prendere il via già dall’estate 2025. È un buon punto di partenza ed è quello che Pianosa, piccolo angolo di paradiso, meritava da tempo.
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