L’imputato è il figlio di Dio


Gesù al cospetto di Pilato nel film di Mel Gibson “The Passion” (2004)
processo a gesù
Sul processo a Gesù le fonti pagane e giudaiche sono tardive e frammentarie, quelle evangeliche contraddittorie. Eppure, anche dalla commistione di fede e di immaginazione possono essere ricostruiti degli eventi sicuri
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È il processo più noto e più misterioso della storia. Si verificò circa duemila anni fa, a Gerusalemme. Imputato: Gesù Cristo, un predicatore poco più che trentenne che si riteneva figlio di Dio. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia, di raccontare in cinque puntate quei momenti e ciò che li accompagnò, mettendone in luce le stranezze, le imprecisioni, le certezze. Questa è la prima puntata.
Ancora una volta, dopo la serie di articoli su Churchill lo scorso anno, il curioso lettore si domanderà con quale ardire un dilettante si accinga ad affrontare un argomento tanto vasto e complesso da aver affaticato centinaia di menti brillanti, i cui scritti hanno riempito corridoi di biblioteche. Non ho altra scusa se non quella di aver ceduto al nuovo e cortese invito del direttore, per riassumere in modo divulgativo il risultato – parziale e controverso – di questi tentativi.
La ricerca di Gesù storico, nota come Alto Criticismo, iniziò nel Diciottesimo secolo, quando Hermann Reimarus scrisse uno studio non confessionale sulla vita del Nazareno. Per un secolo la Germania detenne quasi l’esclusiva di questa impresa monumentale, culminata con la brillante quanto rassegnata conclusione di Albert Schweitzer che si trattasse di un compito virtualmente impossibile. Da lì passò in Francia, con Renan, Loisy, Goguel e Guignebert, poi in Gran Bretagna e infine negli Stati Uniti, dove oggi la discussione è vivacissima. Anche gli ebrei vi parteciparono, con Klausner, Montefiore e più recentemente con Paul Winter. Da allora sono state sostenute su Gesù le tesi più diverse, talvolta ardite e persino stravaganti. Bauer, Couchoud, Drews e altri sostennero addirittura che non fosse mai esistito. Questa conclusione è stata ridicolizzata dalla quasi totalità della critica, e Bultmann affermò che non valeva nemmeno la pena di parlarne. In questo vasto panorama gli italiani sono quasi assenti. Colpa del dogmatismo della Chiesa? Forse. Ma credo sia più colpa nostra. Da noi questo argomento non è un tabù: è indifferenza.
Tutto il mondo s’è interrogato sulla vita di Cristo, tranne l’Italia: qui l’argomento non è un tabù, ma solo indifferenza
Personalmente non sono mai riuscito a restarne indifferente. Pur disponendo di un tempo ristretto, ho sempre pensato che una sua buona parte dovesse esser dedicata a questo tipo di letture. I miei limiti sono quasi preclusivi: non conosco l’ebraico, me la cavo appena con il greco e il latino, un po’ meglio con il francese e l’inglese, e sono a zero con il tedesco. La buona volontà, e le ottime traduzioni, mi hanno consentito di colmare in parte queste lacune. Ma resto, e ne sono consapevole, un dilettante. Devo anche avvertire il paziente lettore che, come tutti noi, anch’io sono condizionato dai miei pregiudizi: in questo caso la condivisone della tesi di Weiss e di Schweitzer che Gesù avesse del Regno di Dio una concezione esclusivamente escatologica, e che fosse completamente indifferente alle vicende di questo mondo. Invocata l’indulgenza, possiamo cominciare.
Per il credente, Gesù è il Cristo Salvatore, figlio di Dio. Per lo storico, è un profeta apocalittico che predicò in Palestina nella prima metà del I secolo, e morì sulla croce. I suoi discepoli in parte si dispersero, in parte iniziarono un’opera di proselitismo. Meno di un secolo dopo la morte di Gesù, una missiva di Plinio a Traiano, e la risposta dell’imperatore, ci informano che i cristiani erano già una “setta” organizzata.
Tuttavia, sempre dal punto di vista rigorosamente storico, su Gesù si hanno poche certezze oltre a quelle della predicazione e della fine. Sul suo processo e la sua crocifissione le fonti pagane e giudaiche sono tardive nella data, secondarie nelle testimonianze, frammentarie nel contenuto e tendenziose nella narrazione, cosicché è assai difficile trarne conclusioni definitive. Le fonti evangeliche, per ammissione della stessa Chiesa, non sono né libri di storia né verbali giudiziari. Pertanto è inutile chiedere loro un resoconto esatto del processo a Gesù. Non solo si contraddicono su vari punti, come vedremo più avanti, ma riflettono la situazione in cui furono scritti, ed esprimono il credo corrente delle comunità: la vita e la morte di Gesù non sono narrate con criterio cronachistico, ma come interpretazioni del loro significato teologico. Tuttavia anche dalla commistione di fede e di immaginazione possono essere ricostruiti degli eventi sicuri. E alcuni di questi furono proprio la condanna e la morte di Gesù, e la presenza di Ponzio Pilato come rappresentante in Palestina dell’imperatore. Di quest’uomo, ambizioso, crudele e collerico, sapevamo già qualcosa da Tacito e da Giuseppe Flavio. Per secoli si credette che fosse il “procuratore della Giudea”, titolo usato da Anatole France nel delizioso raccontino omonimo. Sennonché nel 1961 fu scoperta a Cesarea una lapide dove l’alto funzionario veniva definito prefetto. Da allora, quantomeno su questo punto, tutti gli autori si son trovati d’accordo, e molte edizioni sono state frettolosamente modificate.
Tornando al Nuovo Testamento, mai troviamo tante varianti nella descrizione del medesimo evento come nella Passione e morte del Salvatore. Questo significa che la formazione della tradizione si è fondata su differenti motivi. Nessun testimone era presente nei vari esami preliminari dell’imputato, e nella sessione in cui fu pronunciato il verdetto: di conseguenza, la trasmissione prima orale e poi scritta di questo procedimento generò versioni diverse dovute a intenti cultuali, apologetici e polemici altrettanto differenti. E’ sufficiente leggere le scene descritte dai sinottici e da Giovanni, per convincersi che la loro sequenza non può essersi esaurita nell’arco delle sei o sette ore che vanno dall’arresto alla crocifissione.
Un altro problema che affatica gli storici è la ricostruzione dei sistemi legali romano e giudaico vigenti al tempo di Gesù. Su entrambi non abbiamo certezze assolute, e molte fonti cui si è spesso fatto riferimento riguardano tempi posteriori. La stessa legittimazione del Sinedrio a irrogare pene capitali, e la necessità di una eventuale ratifica del prefetto romano, sono state oggetto di una letteratura sterminata. Tuttavia su una circostanza ormai sono (quasi) tutti d’accordo: Gesù fu sottoposto a un processo romano, per un’incriminazione romana; fu condannato da un giudice romano, a una pena esclusivamente romana, con un “titulus” di condanna (Iesus Nazarenus Rex Iudeorum) romano. Queste conclusioni furono raggiunte dopo decenni di studi e dopo secoli di sofferenze. L’attribuzione agli ebrei della colpa del “deicidio” costituì una delle più tragiche conseguenze dell’ignoranza, del pregiudizio e del fanatismo. Ma questa funesta e incredibile teoria fu elaborata in un momento successivo, quando le diffidenze e le successive persecuzioni dei romani orientarono i redattori evangelici a trasferire la responsabilità della crocifissione da Pilato al Sinedrio. Lo svincolarsi progressivo della cristotologia dall’ortodossia ebraica accentuò questa inversione di competenze giudiziarie, e alla fine il prefetto romano fu raffigurato come un docile esecutore di una turbolenta invettiva popolare, al punto di esser quasi beatificato, assieme alla moglie. Ma all’inizio non fu proprio così: lo stesso Paolo, che pur attribuisce ai giudei l’uccisione del Signore (1 Ts 2,14) afferma che è stato crocifisso “dai sovrani di questo mondo” (1 Cor 2,8) e in realtà riconduce il sacrificio di Gesù alla sua autodonazione (Gal 2,20) e al dono che Dio ha fatto di Lui (Rm 8,12).
Su una cosa sono (quasi) tutti d’accordo: Gesù fu sottoposto a un processo romano, per un’incriminazione romana
Nelle pagine che seguono cercheremo di ricostruire, nei limiti del possibile, le fasi di questo processo, e i motivi della sua distorsione. E’ un’impresa che può intimidire lo storico, ma non turbare il cristiano. Quello che Paolo chiama il “Cristo secondo la carne” ha, come afferma l’apostolo, scarsa importanza per la fede. Se la “Ricerca di Gesù storico”, come scrisse appunto Albert Schweitzer, si risolve in una serie di ombre, la sua figura di Redentore esce intatta anche da una ricostruzione procedurale diversa da quella evangelica. Vedremo quindi in successione l’arresto, il ruolo di Giuda, la comparizione davanti al Sinedrio, il processo davanti a Pilato, e l’esecuzione della sentenza. Possiamo dunque avventurarci nel labirinto della ragione senza perdere l’orientamento della fede.

Le motivazioni dell’arresto servono a comprendere quelli della celebrazione del processo e della pronuncia della sentenza. Tuttavia non conosciamo affatto le incolpazioni che legittimarono la cattura di Gesù, e dobbiamo ricorrere al criterio sussidiario del modo in cui essa avvenne. Ma anche qui gli interrogativi sono molti, e per certi aspetti insuperabili. Possiamo solo trarne delle deduzioni.
L’incertezza deriva dalle versioni diverse che ne danno gli stessi Vangeli. Secondo i sinottici, dopo l’ultima Cena Gesù e i discepoli si recarono sul monte degli Ulivi, e raggiunsero un luogo chiamato Getsemani. E fin qui il Vangelo di Giovanni concorda. Poi le versioni divergono. Matteo, Marco e Luca, pur con qualche variante, descrivono l’arrivo di una folla, con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani (Mc 14,43). Insomma, una turba di giudei ostili. Ma il quarto Vangelo introduce un elemento diverso, e molto più significativo: la presenza di una coorte romana.
La coorte (speira) era composta di sei centurie, più o meno come un battaglione di oggi, ed era comandata da un tribuno (kiliarkos). Talvolta operava a ranghi ridotti, mai comunque inferiori a tre o quattrocento uomini. La maggioranza degli storici dubita che sia stata necessaria una simile armata per catturare un uomo solo: altri ritengono che si tratti di un’interpolazione redazionale. In realtà si può ammettere che Giovanni abbia equivocato sul numero, ma non sulla realtà della partecipazione romana. Prima di tutto perché la traduzione di buon mattino davanti a Pilato presupponeva che l’ordine procedesse da lui, o che comunque i suoi soldati lo avessero informato. In secondo luogo perché una turba di ebrei poteva incontrare una resistenza efficace da parte dei compagni di Gesù, e quindi necessitava di un supporto armato. E infine perché Giovanni, ancor più degli altri evangelisti, tende ad attribuire ai giudei la responsabilità della morte di Gesù. Se quindi ha inserito la partecipazione di un distaccamento romano alla cattura del Maestro la ragione è semplice: non poteva farne a meno, davanti a un fatto così consolidato nella tradizione.
Le residue contraddizioni dei Vangeli sono dettagli minori, ma abbastanza significative. Marco narra che uno dei presenti, tratta la spada, mozzò un orecchio a un componente della turba. Il che conferma che Gesù girava con una specie di scorta armata, come narra Luca: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una bisaccia; e chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una” (Lc 22,36). Da questa circostanza (e da altre meno univoche) alcuni storici hanno attribuito a Gesù un intento rivoluzionario. S. G. F. Brandon ha sostenuto che fosse addirittura un membro o un simpatizzante della setta degli zeloti, che miravano a una resistenza armata all’occupazione romana. La tesi, decisamente minoritaria, è del tutto insostenibile. Tuttavia l’esortazione all’acquisto di una spada, e l’uso fattone durante l’arresto, dimostrano che i seguaci del Maestro non erano affatto inermi, tanto da giustificare i sospetti del governatore romano, e la sua decisione di procedere nei confronti di un capotribù ritenuto pericoloso.
Ma torniamo a Giovanni. Il quarto evangelista narra che dopo il riconoscimento di Gesù tutti “indietreggiarono e caddero a terra”. Quindi Simon Pietro “che aveva una spada (habens gladium) la sfoderò, colpì il servo del sommo sacerdote, e gli mozzò l’orecchio destro; quel servo si chiamava Malco (Gv 18, 6-10). Gli altri due sinottici descrivono l’episodio aggiungendovi particolari interessanti. Luca attribuisce agli apostoli – o comunque a quelli che stavano con Gesù – le domanda : “Signore dobbiamo usare la spada?” (Lc 22,49) così confermando di aver accolto l’invito a girare armati; l’evangelista non cita lo svenimento collettivo, ma specifica che Gesù guarì il servo ferito. Marco è più sintetico, non parla né dello svenimento né della guarigione, ma conclude così: “Allora i discepoli, abbandonandolo, fuggirono tutti” (Mc 14,50). Matteo, da parte sua, aggiunge il monito di Gesù al suo discepolo troppo impulsivo: “Rimetti la spada al suo posto, poiché tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno” (Mt 26,52). Il che smentirebbe l’esortazione, ricordata in Luca, a comprarne una.
Uno dei presenti mozzò un orecchio a un componente della turba, il che conferma che Gesù girava con una scorta armata
La critica libera, anche quella meno radicale, ha rilevato non solo queste contraddizioni, ma anche l’improbabilità di alcuni avvenimenti . Ad esempio l’idea che un’intera coorte romana , composta di addestrati e cinici legionari, sia così impressionabile da paralizzarsi senza reagire. Anche il particolare dell’orecchio riappiccicato suscita le ironie degli scettici. Ma ancora una volta si dimentica che la narrazione evangelica non è cronachistica ma apologetica, e che l’intervento del redattore prescinde dalla verosimiglianza e privilegia la pedagogia. Dobbiamo infine ricordare che i sinottici furono scritti almeno quarant’anni dopo la morte di Gesù, e che nessuno degli autori era presente agli eventi narrati. Nondimeno, di fronte al fatto incontestabile che Gesù fu arrestato e giudicato da Pilato, rimane la domanda: che ruolo ebbe l’autorità romana in questa fase della procedura? La risposta può provenire solo dall’esame dello sviluppo successivo, cioè proprio dalla fase del giudizio: poiché Gesù fu processato dal prefetto romano, e condannato a una pena esclusivamente romana, è ragionevole che anche l’arresto sia stato effettuato da militari romani, secondo la narrazione giovannea.
Di fronte al fatto che Gesù fu arrestato e giudicato da Pilato, resta la domanda: che ruolo ebbe l’autorità romana?
Tuttavia la versione sinottica, che non menziona questa presenza, non può essere rigettata integralmente. E’ infatti plausibile che i militari incaricati di catturare il sedizioso predicatore, non conoscendone le sembianze e ancor meno i movimenti, si siano avvalsi di giudei ostili al Maestro, o forse di un suo stesso discepolo dissidente, per individuarlo e fermarlo. Sono, ripetiamo, congetture verosimili: l’unica possibilità da scartare è che una turba giudaica, pur investita di un ordine proveniente dai sacerdoti, abbia operato da sola per catturare un agitatore ricercato dall’autorità romana, che lo avrebbe entro poche ore crocifisso come un bandito. Qui entriamo nella fase più controversa della narrazione evangelica: quella che potremmo definire istruttoria, che precede la comparizione davanti al giudice. Ma prima dobbiamo dedicare la nostra attenzione alla figura dell’apostolo che, tradendo il Signore, lo avrebbe consegnato alla turba giudaica e alla coorte romana che lo sorpresero nell’orto di Getsemani: quel Giuda che nella teologia, nell’arte e persino nel cinema ha eccitato fantasie e passioni spesso contrastanti. Nel prossimo capitolo vedremo quale sia stato il suo ruolo, se realmente ne ha avuto uno, nell’arresto di Gesù. (1. continua)
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