Dai nonni ai nostri figli. Come cambia la biografia dell’amore


Leonard Whiting è Romeo e Olivia Hussey è Giulietta nell’adattamento del 1968 diretto da Franco Zeffirelli (foto Getty)
Anatomia di un desiderio
Il realismo un po’ cinico delle vecchie generazioni, il romanticismo delle nuove, il nocciolo del possesso così duro a morire. Il “Simposio” di Platone e “Temptation Island”, Mark Twain e Marcel Proust
Da anni desidero scrivere una biografia dell’amore: com’era, com’è, come sarà. Ma desisto, anche se qualcosa in me si è smosso quando ho letto il libro di Vito Mancuso, “Io amo. Piccola filosofia dell’amore” (Garzanti, 2014). Nel capitolo dove si affronta l’origine dell’innamoramento, si legge il seguente passaggio: “Il vuoto quantistico per quanto privo di ogni essere conosciuto è un’entità che produce essere. Con le sue oscillazioni il vuoto genera i primi enti conosciuti che a volte si presentano come particelle a volte come onde. Nel vuoto, nella sua assoluta oscurità, sorgono all’improvviso come lampi di luce, prime tracce dell’essere (…). Tutto questo discorso l’ho fatto per giungere a questa domanda: è ipotizzabile che nel vuoto quantistico che interessa le nostre persone si producano ogni tanto delle oscillazioni casuali che producono lampi di luce, fino a generare la grande esplosione dell’innamoramento?”.
Ho provato disagio. Pur avendo fatto il chierichetto per ben tre anni (alle scuole medie, ai salesiani) e conoscendo i punti fondamentali nonché i riti del cristianesimo, rimango un buon ateo e già le discussioni teologiche non mi appassionano, figurarsi la fisica quantistica usata per spiegare l’origine dell’innamoramento.
Il fatto è che per esperienza ho sentito l’innamoramento come un percorso molto ostico: innamorarsi più che un mistero quantistico è un percorso in un’arena competitiva, dove si combatte e si fatica. Si soffre.
Poi c’è un altro motivo di disagio. Le “oscillazioni casuali che producono i lampi di luce” descrivono l’innamoramento come variabile indipendente: luce che arriva dalle profondità dell’origine e ti colpisce. La variabile indipendente non qualifica l’innamoramento, figurarsi l’amore, anzi lo squalifica: lo identifica come forza misteriosa, divina o quasi. Invece è vero il contrario. L’innamoramento e l’amore dipendono da molte variabili, materiali, psicologiche, darwiniane, evolutive e poco divine. Va considerata l’eredità sentimentale che hai ricevuto, quella culturale nella quale sei immerso, se sei bello o brutto, se sei giovane o vecchio, se hai i soldi oppure no: variabili dipendenti.
Fatto sta che, da quando ho letto il libro di Mancuso (in verità parlava anche di esperienze non quantistiche), ho pensato che una biografica dell’amore, prima di affrontare il tema di cos’è l’amore, dovrebbe analizzare come l’amore si declina. Parlare del come significa descrivere l’arena nella quale si fa esperienza dell’amore. Le arene dicono molto sulla qualità dell’amore: hanno dinamiche secolari, se non le identifichiamo come possiamo parlare d’amore?
Caserta, anni 70: i nostri mentori erano Ciccio sciupafemmine e Gennaro tre cosce. Impartivano insegnamenti molto basici
Per la mia esperienza le arene sono state parecchio competitive. Sul finire degli anni 70, a Caserta, i ragazzi più grandi consigliavano il da farsi affinché un uomo potesse essere in primis un uomo e dunque, in seconda battuta, conquistare le donne. I due mentori, quelli più tenuti in considerazione, erano Ciccio sciupafemmine e Gennaro tre cosce: soprannomi parlanti. Ciccio sciupafemmine era uno che seduceva e seducendo sciupava le donne. Gennaro tre cosce aveva visibilmente (così si diceva) una coscia in più. I loro insegnamenti erano molto basici: un uomo – dicevano – deve guardare il culo a una donna e poi provarci (anche il noto intellettuale Stefano Bandecchi ha dichiarato la stessa cosa). In ragione del principio di autorevolezza, e visto i soprannomi così schietti, gli si credeva.
Da questa matrice venivano fuori diverse regole. Per esempio, un uomo deve disprezzare tutto quello che è femminile, deve fare a botte, non deve andare dal dottore casomai sanguinasse dopo le botte, deve portare i soldi a casa, occuparsi della protezione della casa, deve essere coraggioso, non deve piangere.
Non era solo una questione legata al mio quartiere, anzi, il mio quartiere era rappresentativo di un secolare modus vivendi. Non per niente, lo psicologo James A. Doyle nel suo saggio “The male experience” (1983) esaminava gli stressanti modelli dei devo maschili: il ruolo del cromosoma X, quello del testosterone, la paternità, l’adolescenza, l’attenzione (scarsa) alla salute. Cioè, in sintesi, sottolineava come nei secoli i modelli maschili fossero basati sui devo. A qualcuno potrà sembrare inquietante la somiglianza di visione tra i casertani Ciccio sciupafemmine e Gennaro tre cosce e un raffinato professore di psicologia, ma queste affinità elettive erano e sono un’indicazione: se proprio dobbiamo parlare dell’amore allora concentriamoci sulla materia, così stressante.
Pensate alla mortificazione nel caso di mancata ottemperanza a un devo. Minimo eri ricchione. Attenzione, a Caserta l’espressione non identificava né stigmatizzava un diverso orientamento sessuale, ma più precisamente (appunto) mortificava uno che non seguiva le regole dei devo. I due omosessuali che con coraggio e orgoglio a Caserta fecero coming out nei primi anni 80 aprirono un negozio di dischi nel quale si riuniva tutta la nascente e fino ad allora nascosta comunità. Ebbene, erano così competenti che gli appassionati di musica andavano tutti a comprare lì. Anche io. E un giorno chiesi un disco dei Pooh, si intitolava: “Un po’ del nostro tempo migliore”. Giovane com’ero lo consideravo un buon esempio di prog rock italiano, ed Elio (uno dei due proprietari) prese il disco, me lo consegnò in malo modo e disse: “Solo ’nu ricchione comm’ a te ascolta ’sta musica di merda”.
L’arte della “pusteggia”: cantare le qualità della ragazza e sottolineare la possanza del proprio desiderio. Pratica snervante
Oltre ai devo, pensate alle fatiche dell’arena. Eri obbligato alla “pusteggia”. Termine gergale napoletano, derivato dai noti posteggiatori, cioè musicisti che si esibivano davanti a caffè e ristoranti. Più cantavano struggenti canzoni d’amore, più conquistavano il pubblico, più guadagnavano. Entrare nell’arena significava apprendere l’arte della pusteggia. Cantare le qualità della ragazza e sottolineare la possanza del proprio desiderio. Pratica snervante. Tra l’altro spesso molesta per le donne, nonché inefficace. La pusteggia finiva con una richiesta: ti vuoi mettere con me? La prima volta che entrai nell’arena, passeggiai per circa 40 minuti con una ragazza e le dissi quanto e perché mi piaceva, alternando frasi mie con quelle tratte dalle canzoni dei Pooh. Lei mi fece parlare e alla fine mi rispose in maniera piuttosto chiara: no! Perché no? chiesi. Perché mi piace un altro che fa meno chiacchiere di te, fu la risposta.
Trattasi di un’esperienza comune, e non solo umana. Jessica Yorzinski è una scienziata studiosa di pavoni (esiste un’evidente somiglianza tra pusteggiare e pavoneggiarsi). Ebbene, i suoi studi arrivano a un’aspra verità: le femmine di pavone hanno gusti difficili – e la scelta è solo femminile. Non se la bevono tanto facilmente: in un normale lek (zona di corteggiamento dove i maschi si radunano per ostentare la coda) solo il 5 per cento dei maschi ottiene la maggior parte delle femmine.
Numeri impietosi e anche stressanti, metti che il pavone deve sia guardare le femmine sia guardarsi dai competitor. La tecnica del tracciamento dello sguardo ha evidenziato che il pavone passa il 30 per cento del suo tempo a guardare altri maschi, i competitor. Dunque, i pavoni si deprimono e depressi a volte tentano di accoppiarsi con gli scoiattoli. Falliscono, ovviamente, si deprimono di più: un circolo virtuoso.
Ma questa arena così competitiva che in qualcuno ha stimolato lo spirito di iniziativa, nonché la sfacciataggine, in altri invece la ridicolaggine e pianti a dirotto in caso di fallimento, in altri ancora ansia e isteria da incel, insomma la descrizione su come funziona questa arena ci dice qualcosa sull’origine dell’amore?
La domanda se l’è posta Mark Twain in un testo divertente e filosofico, “Il diario di Adamo ed Eva” . Qui Twain con la sua ironia prende in giro il nostro mito di fondazione e si chiede: visto che Adamo ed Eva sono i nostri prototipi sentimentali, perché si innamorano e finiscono per amarsi tutta la vita? Vabbè, dite voi: c’era poca scelta. Giusto, ma neppure adesso, checché alcune app di incontri ci facciano credere, abbiamo così tanta scelta. Anzi, troppa scelta sembra un inganno del romanticismo. In “The Paradox of Choice” (2004), Barry Schwartz arriva alla seguente conclusione: quando si hanno più opzioni, si tende a esercitare maggiore pressione su sé stessi. Si desidera fare una scelta perfetta e ci si sente ancora più delusi quando alla fine perfetta non è.
Torniamo ai nostri due prototipi sentimentali. Chi è Adamo? Un giovane preadolescente, tutto preso dalle sue attività ludiche. Sbruffoncello, credulone, ama esplorare il giardino dell’Eden (per ragioni promozionali il giardino dell’Eden di Twain è quello attorno alle cascate del Niagara), fare i tuffi: si butta con grande divertimento in una botte dalla cascata. Usa parole pompose per fare bella figura con Eva. Non sembra né riflessivo né introspettivo. All’inizio non sopporta Eva – questa strana creatura dalla bionda criniera che lo segue. Una che si ostina a dare un nome alle cose. Vede un uccello e dice: è un dodo! Adamo le chiede perché mai è un dodo? Lei risponde: perché ha l’aria di un dodo. E quelle cose d’ora in poi – commenta Adamo – si chiameranno proprio così, nessuno riuscirà mai a cambiare quel nome.
Chi è Eva? Una sognatrice. Curiosa di tutto. Una notte si specchia nello stagno e vede la luna riflessa, allunga la mano per toccarla e scivola, quasi annega. Riemerge con una paura nuova: forse – dice – è la paura della morte. Si sente allora così sola, insensatamente sola, e si chiede perché mai Adamo adori stare da solo.
Tutto cambia quando i due perdono il giardino dell’Eden. Cadono, hanno paura, provano vergogna, e si sentono mortali. Solo allora Adamo si avvicina ad Eva. Non sembra un avvicinamento dettato dai lampi quantistici, si tratta piuttosto di una strategia. Bisogna dirlo meglio, Twain ci tiene a questo passaggio: Adamo sente che gli conviene innamorarsi. Ora che il Paradiso è perduto ha bisogno di un sostituto della proprietà: tu sei mia e lavorerai per me, e io presiederò i lavori.
Adamo ed Eva raccontati da Mark Twain. Certo lei non lo ama per la sua intelligenza, ma “semplicemente perché è maschio ed è mio, credo”
Eva glielo lascia credere. Poi tempo dopo gli fa trovare uno strano cucciolo. Emette versi strani e gutturali, piange e ha sempre fame: Adamo lo guarda e lo studia, ma non capisce cosa è: un pesce? Lo butta anche in acqua per vedere se sa nuotare. Non sa nuotare. Intanto, il comportamento di Eva è cambiato, ora passa la notte sveglia a coccolare quell’animaletto e lo consola e gli canta canzoncine: “Con gli altri animali non fa così”. Alla fine, Adamo capisce di cosa si tratta: è un canguro. Una nuova specie, siccome l’ha scoperto lui, lo chiama Cangurus Adamiensis. Poi lei gli dice che no, si chiama Caino. I due mettono su famiglia ed Eva si chiede nel suo diario perché mai ami Adamo: “Non è per la sua intelligenza che lo amo – no, proprio no. Non è colpa sua se ha l’intelligenza che si ritrova, è stato Dio a fargliela. Non è per la cultura che ha che lo amo – no, proprio no. E’ un autodidatta e, a essere sinceri, sa un’infinità di cose, che però non sono vere. E allora quale è mai il motivo per cui lo amo? Semplicemente perché è maschio ed è mio, credo. Sì, penso di amarlo per la semplice ragione che mi appartiene e che è maschio. Non ne esiste altra, mi sembra”. Poi sembra pentirsi, chiede scusa: sono solo una giovane ragazza, forse altri dopo di me capiranno meglio di cosa si tratta.
Adamo ed Eva, senza mai capire il perché, si ameranno per tutta la vita, tanto che Adamo sulla tomba di Eva scriverà: dovunque lei fosse quello era l’Eden. Mentre Eva scriverà: “E’ mia preghiera e desiderio che le nostre vite finiscano insieme – desiderio che non sparirà mai dalla faccia della terra e che fino alla fine dei tempi vivrà nel cuore di ogni sposa innamorata; quel desiderio avrà il mio nome.
Dunque, visto il cambio di prospettiva, la riflessione di Twain qual è? L’amore? Non lampi quantistici, ma una forza associata, fin dalle origini, alla proprietà.
Non bello a dirsi. Del resto quanti sono i film in cui lui conquista lei dopo un discorso d’amore da manuale? Quante esperienze avete vissuto dove avete promesso o dove vi hanno promesso amore eterno? Quante volte abbiamo detto al nuovo partner “con te è diverso, sei quella giusta”? Quante volte abbiamo detto “io e te per sempre”? Ma allo stesso tempo, quante volte abbiamo sofferto o fatto soffrire per un tradimento? Che dire di quel senso di abbandono straziante, delle gambe che tremano, del disorientamento totale, il lutto che proviamo, gli psicoanalisti che paghiamo, i psicofarmaci che assumiamo? Perché mai vogliamo sapere tutto del tradimento (o ci difendiamo dal dire tutto) se non per controllare cosa il nostro partner della comune proprietà ha diviso con l’altro? Se l’amore non fosse legato al possesso non proveremmo quel tipo di emozioni e quella speciale, insostenibile, sofferenza: siamo mammiferi, cerchiamo la protezione, siamo umani, non cerchiamo la verità, ma il riconoscimento del gruppo.
Insomma, proprietà, possesso, vecchie questioni. In fondo, l’amore dei miei nonni non era del tipo “va dove ti porta il cuore”. Cioè, non scaturiva da una poetica romantica (sono i romantici che hanno aggiunto questa spezia all’amore). Al contrario, “era va dove ti porta la dote”.
L’amore come amministrazione del territorio, valorizzato da una coppia della quale si dice: “Sono una società”, svalutato da una relazione tossica
I romanzi vittoriani, a cominciare da Jane Austen, di cosa parlano se non di dote? Tuttavia Twain, affrontando il tema della proprietà, ci indica anche una strada: l’amore è gestione del territorio. Può trasformarsi in valorizzazione del territorio (immaginate una coppia affiatata della quale gli altri dicono: sono una società) oppure in svalutazione del territorio (immaginate un amore tossico) o in normale amministrazione del territorio (quelle coppie che durano ma non si capisce il perché). Così dice Twain ma pure noi. Nei momenti di spleen riconosciamo la natura ambivalente dell’amore: è una forza che ci permette di fare esperienza di empatia, sostenendo e conoscendo il partner, ma anche di controllare il partner, manipolandolo. E’ una forza che ci spinge al sacrificio (che poi è una sorta di investimento nel futuro) e allo stesso tempo può mortificarci per eccesso di sacrificio (quindi abolire il proprio futuro) – tra l’altro il concetto di proprietà riguarda anche i poliamorosi. Solo un visione superficiale considera i poliamorosi liberi dalla gelosia. A ben vedere il loro patto è un modo (con molte regole a sostegno) per controllare il territorio nel quale l’altro si avventura.
Poi certo, anche qui, la capacità di valorizzare la reciproca proprietà o di svalutarla dipende da molti fattori. Gli psicologi parlano di eredità. Se hai avuto o non hai avuto abbastanza amore e se riesci a far fruttare questa eredità. Cosa non facile, in fondo hai imparato qualcosa sull’amore da bambino, quando eri più propenso a chiedere che a dare.
Il paradosso dell’anima gemella raccontato da Aristofane nel “Simposio”: questo è l’amore? Un gioco di incastri fra sporgenze?
Sia come sia, alla base resta il concetto di proprietà. Lo sanno i maggiori filosofi e lo sappiamo anche noi. Non danniamoci, si può ragionare. Pensate a Platone e al “Simposio”, anche qui si parla (criticamente) di proprietà. Lo fa Aristofane inventando la storiella dell’anima gemella. All’inizio – dice – eravamo esseri mostruosi, due teste, quattro braccia e quattro gambe, pure arroganti. Gli dèi allora ci hanno tagliati a metà e separati in due parti, e non solo, per contrappasso comico, la nostra testa è stata girata, così che guardavamo solo il nostro lato anteriore, ovvero, guardavamo la nostra parte mancante. Per porre rimedio a questo spiacevole inconveniente, ognuno di noi deve cercare la sua parte mancante, e finalmente, trovata, fondersi con essa. Questo è l’amore? Un gioco di incastri fra sporgenze? Sei mia, sono tuo! Sono le dichiarazioni chiave di tutti gli amanti: l’altra parte, difatti, non è intercambiabile, né sostituibile! Quella è proprio la nostra anima gemella, dunque la particolare misura che era stata tracciata per noi, la parte mancante della sfera: più proprietà di così.
Ma Aristofane scherzava, non ci credeva. Voleva farci notare il paradosso dell’anima gemella (oggi diremmo che l’anima gemella è l’anticamera dell’amore tossico). La filosofa Martha Nussbaum in un commento al “Simposio” (“La fragilità del bene”, 1986) scrive che Eros unisce sì, ma arriva per caso. Poi, i corpi, dopo la riunione e dopo aver riacquistato la forma sferica, perdono qualsiasi desiderio, si addormentano: nessun desiderio, niente di niente, assenza di perturbazioni.
Poi nel “Simposio” la parola passa a Socrate. Dice di non sapere nulla sull’amore, anzi tutto quello che sa l’ha imparato da Diotima, una sacerdotessa. Diotima interroga Socrate e alla fine arrivano a definire il bello. La parola greca è Kalòn. Include anche l’amore per la scienza, per la democrazia. Dunque Socrate – attraverso Diotima – arriva a sostenere che in realtà le qualità di un amante non sono beni incomparabili ma al contrario quei beni sono una manifestazione della bellezza, del tutto comparabile, quindi simile, alle altre forme di bellezza.
Se i desideri si focalizzano su una presunta unicità, sull’incastro perfetto, poi il primo disincastro rende gli amanti deboli e fragili. Violenti anche. Invece gli amanti dovrebbero cominciare un percorso di educazione. Se pensiamo ai beni d’amore come comparabili, allora possiamo arrivare a dire che il corpo di questa meravigliosa amante ha esattamente (si può comparare con) le qualità della sua mente, e la sua mente è simile alla bellezza della matematica e quest’ultima si può comparare alla democrazia ateniese. Nostro compito è ascendere, arrivare su quella soglia dove la comparazione tra bellezze è possibile. In questo apprendistato il giovanotto saprà “che la bellezza che risplende nelle anime è più pregevole di quella che traspare nei corpi e il giovanotto si innamorerà di quella bellezza, così che poi sarà portato a considerare la bellezza che è nelle istituzioni e nelle leggi (…) e riguardando in questa copiosa bellezza, non più amerà alla maniera di uno schiavo, ma la contrario, annegando la vista nello smisurato mare di questa bellezza nuova, e in quello contemplando, partorirà molti bei discorsi e splendidi, e pensamenti abbondanti in sapienza”.
Tuttavia il “Simposio” non finisce qui, dopo la proposta di Diotima, Platone complica le cose. Perché (non invitato) arriva Alcibiade, condottiero ateniese. Bellissimo e guascone. Non propriamente in sé. Causa ubriachezza spinta, mette su un discorso contrario a quello di Diotima, ci confessa il suo amore per Socrate, lui infatti possiede qualità particolari. Ad Alcibiade non interessa comparare Socrate ad altro. Siamo punto a capo, l’amore secondo Alcibiade non può fuggire da questa speciale esperienza del singolare. Ma allora l’amore è esperienza dell’universale o del particolare? Al primo posto c’è il bisogno della proprietà (incommensurabile) che tutto comprende e basta a se stessa, oppure è tensione verso la bellezza? Platone non scioglie questo enigma, e se non lo scioglie Platone, come posso riuscirci io?
Nel Terzo millennio ancora non possiamo raccogliere quell’invito che Eva mette per iscritto nel suo diario: altri dopo di me capiranno meglio l’amore? Niente, la proprietà è ancora dominante (altrimenti “Temptation Island” non avrebbe il successo che riscuote). Tuttavia, qualcosa si muove. Anche se l’immaginario (sia quello di Hollywood sia quello di Bollywood) insiste sul fatto che ci sia una sola risposta degna di essere accolta: quella romantica con tutto quello che ne consegue, pure è vero è che molti non sono chiaramente soddisfatti del romanticismo. Anche perché il mondo si muove e la vecchia usanza di formare coppie, sposarsi per allevare la prole e proteggerla, sta perdendo appeal. Vuoi la crisi demografica (una mia zia molto anziana disse: ho donato il mio utero a Mussolini), vuoi il desiderio di creatività diffuso, ma qualcosa sembra cedere. All’orizzonte del resto ci sono altri strumenti non solo per ragionare sull’amore e il desiderio ma anche per mantenerli costanti.
La filosofa Carrie Jenkins nel suo libro “What Is Love: And What It Could Be” sostiene che l’amore è un fenomeno biopsicosociale. Gran parte della nostra narrativa culturale sull’amore si basa su aspetti psicologici, soggettivi ed esperienziali. Ma negli ultimi decenni siamo stati in grado di vedere cosa succede a livello biologico e neurochimico. Per questo livello biologico sono in fase di studio una serie di farmaci. La psilocibina per esempio. Avete presente quelle coppie intrappolate sempre nello stesso schema? Il fatto è che il nostro cervello è un grande meccanismo di previsione bayesiano. Cerchiamo di prevedere cosa succede nel mondo. Una volta che notiamo certi schemi o regolarità, li memorizziamo come un’aspettativa. Poi continuiamo a interpretare il mondo alla luce di quelle convinzioni pregresse. Ma alcune di queste convinzioni pregresse diventano schemi in cui rimaniamo intrappolati. Ciò che la psilocibina sembra fare è cancellare temporaneamente alcune di queste convinzioni pregresse, in modo da vedere le cose con occhi nuovi, assimilare le informazioni senza pregiudicarle così tanto come si faceva in passato. Un po’ quello che diceva Diotima: l’amore è una scala ascendente, ma chi è bloccato su un gradino hai voglia a fare filosofia, non avanza: ecco, la psilocibina aiuta.
Ma prendete quei religiosi che accusano la libido. Magari provano attrazione per lo stesso o il semplice desiderio di masturbarsi. Siccome è proibito, provano vergogna e si deprimono. Ebbene, ci sono gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), una classe di farmaci antidepressivi. Tra gli effetti collaterali c’è l’abbassamento della libido. Si abbassa la libido e si abbassa il desiderio di masturbarsi o di avere rapporti sessuali e Sant’Antonio Abate con le sue tentazione se ne va in soffitta. Voi dite, vuoi mettere la resistenza alle tentazioni di Sant’Antonio Abate con gli SSRI? Ma tant’è, la biografia dell’amore del terzo millennio per forza deve comprendere il nuovo ambiente culturale e biologico e gli strumenti che riterremo a noi utili (e che potrebbero procurarci svantaggi che non sappiamo prevedere).
Proust arriva a definire i quattro momenti che compongono la legge dell’amore: abitudine, ansia, gelosia, oblio. I tormenti di Swann
Comunque, per concludere, non ho mai scritto una biografia dell’amore perché ci ha già pensato Marcel Proust. Per lo scrittore l’amore non è il senso della vita. Anzi, l’amore ha delle dinamiche che lo fanno assomigliare a una malattia. Tanto è vero che Proust si avvicina al tema dell’amore come un dottore si avvicina al paziente e si chiede come si contrae il male. E’ possibile essere vaccinati? Quanto tempo dura l’incubazione? Quali sono i primi sintomi? Perché la maggior parte dei malati non si avvede dei sintomi? Quanto tempo il morbo, cioè l’amore, impiega per diffondersi in tutto il corpo? La guarigione è possibile, le ricadute sono frequenti? Esaminando il morbo come un medico, Proust arriva a definire i quattro momenti che compongono la legge dell’amore: abitudine, ansia, gelosia, oblio. Anche questi hanno a che fare con la proprietà e ancora una volta ci sembrano troppo bassi per prenderli in considerazione. Meno male che è Proust non è d’accordo. Non è il desiderio che muove l’amore, è l’abitudine, una forza possente ma ambigua: è dolce ma crea dei legami di cui col tempo non possiamo fare a meno. Nella “Recherche”, quando per uno stupido inconveniente Swann arriva in ritardo al ricevimento e non trova Odette, si chiede dove sia. Eppure non le piaceva all’inizio, ma ora che non la vede come al solito all’abitudine subentra l’ansia. Infatti, Swann si darà da fare, rincontrerà Odette e proverà un’incredibile sensazione di sollievo. Quel sollievo è così dolce che si prolungherà per tanto tempo, sera dopo sera, e alla fine procura quel piacere che chiamiamo amore. Ma è solo il morbo che si fa strada, nascondendo i suoi intenti. Poco dopo, infatti, l’amore che Swann proverà verso Odette lo farà star male. Quando Odette gli dice che stasera no, non ha voglia che Swann resti con lei, allora il malato entrerà in una nuova devastante fase: la gelosia. La gelosia attiva il sospetto e con i sospetti gli interrogatori e con questi le menzogne. La gelosia è il centro di tutta l’opera di Proust.
Cosa succede dopo questa fase caratterizzata da grande sofferenza provata e fatta provare? Nei casi migliori subentra l’oblio, significa che ci rassegniamo all’assenza dell’amato, un’altra abitudine, secondo Proust e secondo Swann, un’abitudine così potente, ancora più potente della gelosia che scatena l’oblio: siamo guariti? Forse sì, o forse siamo pronti a ricominciare seguendo la vecchia e stabile legge dell’amore. L’oblio ha una conseguenza: inficia il senso dell’amore. Pensavamo che quella persona era il nostro centro vitale e invece non è più nulla. Ma se è nulla, allora noi in quel periodo chi siamo stati? Chi era il nostro io dei vent’anni, afflitto dal morbo? Se incontrassimo quell’io malato lo riconosceremmo? Lo compatiremmo? O forse l’abbiamo dimenticato per sempre?
Conclusione? Per Proust l’amore non è una delle ragioni che rende la vita degna di essere vissuta (l’arte rende la vita degna di essere vissuta). Però l’amore ha dei vantaggi, per amore si diventa individui sociali, si fanno a volte buone conversazioni, ma soprattutto l’amore è quella forza (la sola) che può farci prendere confidenza con la nostra mortalità. In fondo è quello che dice Eva quando cade nello stagno e scopre la presenza della morte e desidera un compagno per alleviare questa sensazione. Capisco che il lampo quantistico è più affascinante ma la presenza della morte è sufficiente per coltivare la materia bruta dell’amore e forse provare a scrivere un’onesta e collettiva biografia dell’amore, e con l’amore, ovvio, una biografia della vita.
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