Cremonini al Maradona: uno show da sogno, tra laser, troppi cambi d’abito e un audio che non regge il palco

di Alessandra Del Prete
È un cielo terso sopra Fuorigrotta ad accogliere Cesare Cremonini per la sua prima volta al Diego Armando Maradona, uno dei debutti più simbolici della sua carriera. Napoli lo aspettava da tempo, lui pure: fan del Pibe de Oro, confessa che cantare nello stadio che porta il suo nome è un sogno che rincorre da una vita. Un legame personale e profondo, alimentato da amicizie vere (come quella con Davide Petrella, alias Tropico, unico ospite sul palco), iniziative sociali nei quartieri difficili e un amore dichiarato per la città che lo ha adottato senza condizioni.
Cremonini ci arriva con un live monumentale: 65 metri di palco, 900 metri quadrati di LED, laser sparati a 270 watt, dieci cerchi mobili che danzano come ingranaggi steampunk futuristi e abbastanza macchine del fumo da trasformare lo stadio in una distesa onirica. È uno show pensato in grande, e va detto: visivamente è un colosso. A tratti mozzafiato.
Ma c’è un ma. Anzi, più di uno.
Se visivamente il concerto è da Serie A Champions League, l’audio invece gioca in Promozione. Dal prato alle curve, la resa sonora è spesso impastata, impietosa con le nuance della voce e poco limpida anche sui picchi musicali. Un problema tecnico che stride con la potenza scenografica dello show.
Cremonini però non si scompone: canta, suona, si muove con sicurezza. Forse ha visto i video di Dan Reynolds degli Imagine Dragons qualche giorno prima — quello che al Maradona si è tolto la maglietta e ha ipnotizzato tutti a torso nudo. E Cesare? Si è fermato a un torso nudo veloce. Forse per non sfigurare. Forse, più semplicemente, perché qualcuno in camerino gli ha detto: “Cesare, hai visto quel video? Meglio di no stavolta…”.
Lo spettacolo si apre con fuochi d’artificio e “Alaska Baby”. Un manifesto musicale e visivo che dà subito il tono dell’intera serata: Cremonini è dentro una narrazione personale che fonde passato e futuro, confessione e spettacolo, pop italiano e songwriting d’autore. Dalla nostalgica “PadreMadre” a “Poetica”, fino ai nuovi brani come “Ora che non ho più te”, che suona bene anche in una piazza difficile come quella napoletana.
Tropico, ospite speciale, porta un tocco verace e condiviso, cantando con Cesare in un duetto che sa di amicizia vera e contaminazione sincera. Nessun effetto special guest à la Sanremo, ma un momento che aggiunge cuore al cuore.
Il problema, semmai, è l’alternanza ritmo-cambio-abito. Cremonini ama cambiare pelle e outfit (ne abbiamo contati almeno cinque), ma ogni cambio è una pausa, un buco narrativo, uno strappo nell’energia. La gente si siede, l’entusiasmo si affievolisce, si perde tensione. È uno show che avrebbe bisogno di più flow e meno “fermi tutti che Cesare si rimette la giacca”.
Eppure, quando funziona, funziona da Dio. “50 Special” fa saltare tutto lo stadio, “Marmellata #25” è cantata come un inno nazionale (sì, anche a Napoli), e “Nessuno vuole essere Robin” chiude il cerchio con malinconia e potenza emotiva. Si canta, si piange, si balla. Si torna a casa con qualcosa, anche se non tutto ha brillato.
Cremonini al Maradona non è stato perfetto, ma è stato vero. Un artista in viaggio da 25 anni, che porta i suoi sogni di bambino dentro uno stadio che rappresenta la leggenda. Che ci sia margine per migliorare lo show, l’audio, la coerenza narrativa è certo. Ma che Napoli lo abbia accolto a braccia aperte, è fuori discussione.
Cesare ha ancora voglia di “sognare con noi”. E noi, in fondo, pure con lui. Magari con una t-shirt in più. O in meno, chissà.
İl Denaro