La legge del fuoco e del canto


Senza polizia, senza tribunali, senza codici scritti o istituzioni formali che società sarebbe. Ci verrebbe alla mente il caos. Qualcosa di non molto diverso dalla “notte del giudizio” rappresentata in The Purge. Eppure, per decine di migliaia di anni le prime comunità umane hanno vissuto in questo modo, senza istituzioni e regole formali, senza giudici e gendarmi ma in un ordine definito e in comunità pacifiche. Un ordine stabilito dalle relazioni, dai rituali, dalla memoria condivisa. Un ordine in cui la cooperazione non era data per scontata, ma veniva continuamente negoziata, mantenuta e, quando di quando in quando, rinforzata dalle punizioni.
Gli Hadza sono un gruppo di cacciatori-raccoglitori della Tanzania, una delle poche società rimaste al mondo che ancora vive di ciò che la natura offre. Non hanno capi, né gerarchie rigide. Eppure, come hanno dimostrato gli studi sul campo, riescono a cooperare con sorprendente efficacia. Quando si tratta di dividere il cibo, ad esempio, esiste una norma implicita di condivisione: chi ha avuto fortuna nella caccia è tenuto a dividere. Non ci sono giudici ad imporre questa regola. Nonostante questo, le violazioni sono straordinariamente rare. Non ci sono sanzioni fisiche o verbali per chi trasgredisce. È tutta una questione di reputazione. Chi non condivide viene isolato e deriso. Il suo nome circola nei racconti serali attorno al fuoco. Diventa esempio per ciò che non si dovrebbe fare. È una punizione sottile, ma potentissima: essere esclusi da un gruppo che dipende dall’aiuto reciproco equivale a una condanna severissima.
Molto diversa, ma altrettanto istruttiva, è la dinamica che possiamo osservare tra gli Inuit che abitano le regioni artiche. In un ambiente ostile la sopravvivenza dipende dalla capacità e dalla volontà di fare le cose insieme. Ma quando le cose vanno storte, sorgono conflitti per questioni sentimentali o sulla divisione delle risorse, gli Inuit non ricorrono alla violenza. Si usano i “duelli canori”; una forma ritualizzata di contesa in cui i due rivali si insultano in rima davanti al villaggio, cercando di ottenere il favore del pubblico. Non vince chi ha ragione, ma chi ha il canto più efficace. Una forma arcaica di tenzone non troppo diversa dal battle rap o dal dissing dei trapper che spopolano su Spotify. Questa forma di “punizione artistica” rivela molto. La sanzione non è imposta dall’alto, ma mediata dal gruppo. L’umiliazione pubblica sostituisce la vendetta. L’ordine sociale viene mantenuto non con la forza, ma con l’ironia, il prestigio, in alcuni casi perfino con la bellezza.
Gli Yanomami dell’Amazzonia hanno sviluppato un modello diverso. In questa società di cacciatori e raccoglitori semi-nomadi, l’uguaglianza e la condivisione sono tenute in altissima considerazione. Nessun mangia la carne della preda che ha cacciato. La dona ai familiari e agli amici nella certezza che gli altri faranno lo stesso e che tutti avranno il loro. Le violazioni a tali norme sono punite severamente. Le dispute sfociano spesso in scontri fisici. Tuttavia, anche qui esistono regole. Le vendette devono essere proporzionate, pubblicamente giustificate, spesso concordate in anticipo. La punizione non è cieca: è regolata da norme sociali condivise, per quanto variabili. L’aspetto interessante è che anche in contesti violenti come questi la cooperazione non si interrompe, persiste. Gli Yanomami si alleano, commerciano, si sposano tra membri di clan differenti. La violenza, paradossalmente, non distrugge il tessuto sociale: lo ristruttura e lo rinforza.
Tra gli Mbuti del Congo e i !Kung del Kalahari, si osservano ancora altre forme di regolazione del conflitto. La pressione sociale è la principale forma di controllo. Se qualcuno si comporta da opportunista viene ridicolizzato in pubblico o viene ignorato nei momenti cruciali della vita collettiva. Non ci sono carceri, né sanzioni formali. Si usa l’isolamento simbolico, che può essere molto più doloroso e penalizzante. L’egoista che non condivide il cibo, si vanta di una preda o vìola i codici dell’eguaglianza, interviene la comunità. La sanzione può essere l’ironia collettiva, la derisione attorno al fuoco, il gossip correttivo, oppure l’isolamento temporaneo. Anche tra gli Mbuti, si canta per disapprovare. E’ il “”, un rituale canoro che chiama la foresta, entità morale e spirituale, a testimoniare il comportamento scorretto. Il punto cruciale è che la punizione è agita da chi non ne trae un beneficio diretto: un comportamento di tipo “altruistico”, secondo la definizione data dagli economisti comportamentali. Chi punisce lo fa per preservare l’equilibrio, per senso di responsabilità verso il gruppo. Non si tratta di vendetta né di imposizione, ma di un meccanismo correttivo collettivo, che mantiene la cooperazione e l’eguaglianza attraverso strumenti leggeri ma efficaci. La coesione sociale si costruisce così: non con la minaccia della forza, ma con la forza della norma condivisa.
Come mostrano questi esempi, nel corso della storia abbiamo sviluppato moltissimi modi differenti per rinforzare la cooperazione, gestire il conflitto e scoraggiare l’opportunismo. Le società più egalitarie tendono a punire in modo informale e simbolico; quelle più gerarchiche ricorrono a punizioni materiali. Ma in ogni caso, la punizione è sempre presente perché la cooperazione ha un prezzo.
Cosa ci insegnano, dunque, le vicende di queste società arcaiche? Innanzitutto, che la cooperazione non emerge da sola. Va protetta e rinforzata, a volte, anche con la punizione. In secondo luogo, che esistono molte forme di sanzione, non necessariamente coercitive, ma informali, simbolico, perfino artistiche. Terzo, che la funzione della punizione, in genere, non è tanto quella di punire la singola violazione ma, piuttosto, di preservare l’equilibrio e la coesione. Queste società, infine, ci insegnano che quando le dimensioni del gruppo crescono oltre una certa soglia, la pressione sociale non basta più a mantenere l’ordine e a scoraggiare il conflitto. La reputazione non può viaggiare abbastanza velocemente. I duelli canori diventano inefficaci. È allora che nasce la necessità di istituzioni formali: tribunali, contratti, leggi, sacerdoti, guerrieri e capi. Ma queste nuove istituzioni, per essere efficaci, devono saper imparare dalle vecchie: devono costruire relazioni, non solo deterrenza. Devono fondarsi sulla legittimità, non solo sul controllo. Perché la giustizia, in ogni società, è sempre e prima di tutto una forma di fiducia reciproca. Una promessa che ci facciamo vicendevolmente: che si può vivere insieme anche senza distruggersi. E quando questa promessa si rompe, non resta che la paura.
La giustizia non nasce dal diritto – l’abbiamo ripetuto molte volte - ma dal desiderio e dalla necessità di vivere insieme. Prima del codice, prima del giudice, prima della pena, c’è il fuoco acceso nella notte. Uno spazio sacro e pubblico dove si canta, si racconta, si ricorda chi siamo e che ci plasma. Là, tra la cenere e la voce, si costruisce la fragile architettura della convivenza. Le società senza Stato ci insegnano che la punizione non è sempre dominio: può essere cura, può essere richiamo, voce, può perfino diventare musica. Un modo per dire che anche chi sbaglia appartiene, ma non così. È un linguaggio che corregge senza spezzare e che dovrebbe proteggere senza umiliare. Un gesto che contiene, nel dolore che infligge, la speranza di tornare a stare insieme. E quando, come oggi, le nostre istituzioni sembrano spesso più impegnate a punire che a comprendere, più ad avvilire che a includere, varrebbe la pena ricordare le lezioni del canto, dell’ironia, del gesto collettivo che arriva da questo passato. Perché la giustizia non è mai solo ordine: è memoria, è legame, è voce che ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande di noi.
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